Nei primi anni del XXI secolo le isole greche del mar Egeo sono divenute meta dei flussi migratori che transitano dalla Turchia, uno dei nodi fondamentali delle migrazioni in Europa (la cosiddetta Rotta Orientale). Migliaia di cittadini partivano dall’Afghanistan, dalla Siria e dall’Iraq e arrivavano in Turchia, con la speranza di sbarcare poi in Europa. Ma in alcuni casi transitavano dalla Turchia anche flussi migratori provenienti dall’Africa, soprattutto quando venivano intensificati i pattugliamenti lungo la rotta spagnola e italiana.
In quegli anni interi quartieri delle città turche di Istanbul e Smirne erano abitati da migranti in transito, in attesa di raggiungere la Grecia via mare oppure via terra, attraversando la frontiera nord-occidentale della Turchia nascosti nei camion.
La rotta migratoria Orientale verso la Grecia è stata la più percorsa negli ultimi anni, con circa 1,2 milioni di arrivi dal 2009. Circa il 70% di questi sono sbarcati però nel solo 2015, durante la cosiddetta ‘Crisi europea dei migranti’, che aveva generato un flusso migratorio senza precedenti dalla Turchia alla Grecia.
La causa principale di tale crisi erano le guerre, che spingevano imponenti flussi di persone a fuggire principalmente dalla guerra civile in Siria (che coinvolgeva anche l’Iraq), ma anche da quella in Afghanistan, dalla guerra civile in Somalia e dal conflitto del Darfur in Sudan.
Proprio per rispondere a tale crisi, nel marzo del 2016 l’Unione Europea aveva negoziato con la Turchia una serie di misure, contenute nella Dichiarazione UE-Turchia del marzo 2016.
Tale dichiarazione prevedeva, da un lato, una maggiore collaborazione delle autorità turche nel contrasto al traffico dei migranti e un programma di rimpatrio dei migranti irregolari in Turchia; dall’altro, il reinsediamento di una parte dei richiedenti asilo Siriani nell’Unione Europea e un sostegno economico iniziale di 3 miliardi di euro per il biennio 2016-2017 (e altri 3 miliardi per il 2018) alla Turchia per le comunità locali turche che li avevano accolti.
La Dichiarazione impegnava inoltre l’Unione Europea e gli Stati membri a collaborare con la Turchia per migliorare la situazione umanitaria in Siria, in particolare nelle zone vicine alla frontiera turca, nel quadro di sforzi congiunti che potessero consentire alla popolazione locale e ai rifugiati di vivere in zone più sicure. Era anche previsto che per ogni profugo rimandato in Turchia dalle isole greche un altro venisse trasferito dalla Turchia all’Unione Europea attraverso i canali umanitari, con precedenza alle donne ed ai bambini. Era infine incluso un rilancio del processo di liberalizzazione dei visti tra Unione Europea e Turchia e dei negoziati relativi al processo di adesione della Turchia all’Unione.
Con l’entrata in vigore dell’accordo e nei due anni successivi, il numero dei migranti verso la Grecia si era drasticamente ridotto, passando dai circa 850.000 del 2015 ai 170.000 del 2016 e 30.000 del 2017; ma gli strumenti con cui era stato raggiunto tale risultato lasciavano parecchie ombre sull’operato del governo turco, soprattutto nell’ambito della tutela dei diritti umanitari dei migranti.
Nonostante l’accordo però i rapporti fra Turchia e Unione Europea rimanevano tesi, con reciproche accuse di mancato rispetto delle relative previsioni:
- I negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea non vedevano avanzamenti significativi
- Il deterioramento della situazione dei diritti umani in Turchia era frequentemente oggetto di critiche da parte delle istituzioni Comunitarie
- Gli accordi prevedevano un ricollocamento dei siriani in rapporto di 1 a 1 tra Turchia e Paesi membri: per ogni siriano che entrava illegalmente in territorio greco e che veniva espulso in Turchia, il governo di Ankara doveva selezionarne uno per essere ricollocato nell’Unione; a causa del blocco dell’accoglienza messo in atto da alcuni Stati membri tale principio era stato rispettato solo in pochi casi
- La mancata liberalizzazione dei visti Ue per i cittadini turchi è sempre stata vista dalla Turchia come una promessa tradita.
Così, con ormai 5,6 miliardi di euro già stanziati (di cui circa la metà già pagati) per la gestione della crisi migratoria dovuta al conflitto in Siria e Iraq, nel corso del 2018 l’equilibrio già molto instabile iniziava a rompersi e la Turchia tornava a sfidare l’Unione Europa minacciando di consentire a milioni di migranti Siriani di riversarsi in Europa attraverso la Grecia.
Nel 2018, la rotta migratoria dalla Turchia all’Europa registrava nuovamente una forte crescita, vanificando gli effetti degli accordi del 2016.
Nel 2019 la Grecia è tornata quindi ad essere l’epicentro della crisi migratoria europea; i picchi degli sbarchi coincidono con le reiterate minacce da parte del presidente turco Erdoğan e di altri membri del suo governo di inondare l’Europa di migranti. Sebbene il numero di arrivi dei migranti in Grecia sia ancora ben al di sotto del numero di sbarchi avvenuti nel pieno della crisi migratoria del 2015, le recenti ondate di nuovi arrivi indica che le minacce stanno diventando una realtà. Contestualmente, i paesi dell’Unione Europea iniziano a rendere più rigide le politiche relative all’immigrazione, facendo sempre più fatica a trovare una linea comune che, invece, potrebbe aiutare i paesi maggiormente impattati dagli sbarchi a gestire tale crisi. Nella seconda metà del 2019, è emersa così in tutta la sua drammaticità la situazione dei migranti in Grecia, che pure non è mai stata rosea. Il recente incremento degli sbarchi, unito alla cattiva gestione da parte della autorità greche ed europee, ha reso ancora più esplosiva la situazione nel sistema di accoglienza greco.
(Fonte “IMMIGRAZIONE IN GRECIA” di: Barni – Ballabio – Biffi – Lombardi)